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07 marzo 2022

UCRAINA: COME SIAMO ARRIVATI QUI

UCRAINA: COME SIAMO ARRIVATI QUI

 

 

L’attacco russo all’Ucraina va ben oltre quanto ci si aspettava nell’Europa occidentale, dove negli anni era cresciuta l’immagine di Putin più come un presidente scaltro e razionale che un dittatore pericoloso intento a ricostruire l’impero russo come spesso presentato dalle istituzioni americane. Gli annunci della Casa Bianca di un attacco imminente sono stati visti con un po' di scetticismo anche negli Stati Uniti, ma nonostante qualche partenza falsa, alla fine l’amministrazione Biden ha dimostrato di avere informazioni piuttosto precise captate attraverso l’intelligence, senza però raggiungere l’obiettivo dichiarato di dissuadere Putin dall’attaccare.


Ora il contesto strategico cambia in modo significativo. Una cosa è mobilitare le truppe per mettere pressioni e trattare, ed eventualmente fornire più assistenza ai separatisti, tra l’altro su invito/richiesta loro; altro è invadere e puntare al controllo delle principali città del resto del paese, con o senza l’intenzione di rimanerci a lungo. A questo punto si apre una nuova fase di scontro e divisione in Europa, e le attenzioni della Nato – che in linea generale si stanno spostando verso l’Asia – torneranno a crescere anche verso l’Europa orientale, proprio il contrario di quanto voleva Mosca.



Pur condannando – e anche considerando come un errore – la decisione di Putin di trasformare le minacce in azioni belliche a tutti gli effetti, con i drammatici costi in termini di vite umane e distruzione di infrastrutture fisiche, occorre comunque chiedersi come siamo arrivati a questo punto; com’è successo che la Russia ha deciso di compiere un atto così dirompente, di rottura con il sistema del diritto internazionale come viene visto nel mondo occidentale, infischiandosi delle pesanti conseguenze minacciate in termini di sanzioni economiche, e anche dell’inizio di un nuovo, forse lungo periodo di divisioni pesanti e costose.



Cominciamo con la strategia messa in atto dall’amministrazione Biden nelle ultime settimane, quella della guerra psicologica di cui abbiamo scritto più volte. Quando il presidente russo ha deciso l’anno scorso di mostrare i muscoli con l’obiettivo di sfruttare il momento di dialogo con la sua controparte americana per raggiungere una sorta di accordo quadro sulla sicurezza nell’Europa orientale, la risposta delle istituzioni statunitensi non è stata quella aspettata: dopo qualche contatto iniziale con Biden in cui quest’ultimo ha mostrato solo delle aperture molto limitate in merito alle richieste del Cremlino, si è presto passati ad una nuova fase, quella di denunciare i piani della Russia identificati dall’intelligence Usa, cercando di mettere i russi in imbarazzo e sfidandoli a mostrare le proprie carte.


I russi hanno negato, e il presidente ucraino ha chiesto più volte di moderare il linguaggio, ma da gennaio gli americani hanno cominciato a parlare di un attacco imminente. L’idea doveva essere di dissuadere i russi, ma evidentemente non ha funzionato. Quindi mentre l’intelligence è stata precisa, la strategia ha fallito. Perché?


Si potrebbe dire che in realtà Putin aveva deciso di invadere già dall’inizio. Ma se vogliamo riconoscere che le previsioni di Biden erano essenzialmente giuste, non si può farlo in modo selettivo: il presidente americano ha ripetuto più volte fino a metà febbraio che Putin non aveva ancora deciso se procedere militarmente. Dunque cosa gli ha fatto decidere? Evidentemente Putin non ha avuto le risposte che cercava, e quindi ha deciso di rischiare grosso; non solo la credibilità visto che aveva smentito ripetutamente l’intenzione di invadere, ma anche di farsi isolare dall’Occidente e pure di rimanere impantanato in un’avventura dall’esito tutto altro che certo.

 

Le richieste di Putin sono chiare: una garanzia che l’Ucraina non entrerà nella Nato, che non ci saranno missili occidentali vicini alla Russia, e una sostanziale smilitarizzazione dei paesi ex-sovietici ora membri dell’Alleanza Atlantica. Washington era disposta a trattare sui missili, almeno in parte, ma ha detto più volte che non poteva chiudere le porte della Nato, e decidere per i paesi europei senza coinvolgerli. Biden si è perfino spinto a dichiarare pubblicamente che l’Ucraina non potrà entrare nella Nato in tempi brevi, ammettendo quello che sanno tutti, visto anche che l’accessione sarebbe preclusa ad un paese coinvolto in dispute territoriali.
Troppo poco, secondo i russi, ma Putin avrebbe potuto accontentarsi: aveva dimostrato che l’Occidente non sarebbe intervenuto nel caso di un’invasione dell’Ucraina – di fatto confermando una sfera d’influenza militare incontrastata – e grazie alla presenza in Crimea e nelle repubbliche separatiste poteva garantire lui stesso che l’Ucraina non sarebbe entrata nella Nato.


Ma neanche questo è bastato. La decisione del Cremlino è stata di invertire la tendenza in atto da decenni, quella dell’allargamento dell’Alleanza atlantica, e anche di tentare di interrompere il flusso di armi verso l’Ucraina dall’Occidente e gli attacchi contro i cittadini filorussi all’interno del paese. Le unità militari lungo la linea di contatto – compresi i membri del Battaglione Azov, riconosciuto come estremista anche dal Congresso Usa e dallo stesso governo ucraino – hanno dato inizio ad un tentativo di avanzata nei territori del Donbass, certificato anche dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). Dal lato ucraino si sparavano sui civili, nonostante la presenza di decine di migliaia di truppe russe nelle vicinanze; quest’ultime hanno prontamente reagito, anche con operazioni false flag, cioè delle messinscene per giustificare una reazione ancora più forte a livello militare.



Dopo gli eventi del 2014, in cui le legittime proteste di Piazza Maidan furono trasformate in una presa violenta del potere – definita dal fondatore di Stratfor George Friedman come un “golpe” evidente – l’Occidente si è mosso rapidamente ad imporre sanzioni alla Russia, e ha sempre rifiutato di riconoscere il diritto di Mosca di intervenire. Tuttavia, nonostante le forti pressioni l’allora presidente americano Barack Obama si rifiutò di approvare l’invio di armi in Ucraina, non volendo dare vita ad una guerra per procura, e sapendo che mandare le armi avrebbe militarizzato lo scontro ancora di più.


Questa inibizione è venuta meno con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Lo stesso Trump, pur essendo aperto ai rapporti con Putin fino al punto di caldeggiare una “grande intesa” con la Russia per risolvere la questione ucraina e perfino di riconoscere il referendum in Crimea, si è lasciato convincere a dare inizio al processo di riarmo degli ucraini, che ha proseguito negli ultimi 5 anni, facendo temere a Mosca un cambiamento degli equilibri inaccettabile dal suo punto di vista.

 

Ma come hanno pensato i russi di giustificare un attacco su questa scala? Entrare formalmente nel Donbass e ostacolare un’avanzata da parte delle forze governative era comprensibile e forse anche prevedibile, ma invadere il resto del paese comporta dei grossi rischi, a livello sia militare che politico. L’obiettivo dichiarato è di disarmare il paese e di fermare gli elementi neo-nazisti nel governo. Non si tratta di pure farneticazioni di un folle: come già detto, e come si vede dalla resistenza in questi giorni, la fornitura di armi ha effettivamente rafforzato le capacità militari di Kiev. Inoltre, i gruppi estremisti sono presenti da anni in Ucraina; non rappresentano certamente la maggioranza, ma alcuni gruppi hanno avuto un ruolo importante nell' attaccare la popolazione pro-russa.


Quello che sembra chiaro è che al Cremlino si è pensato che una situazione di stasi fosse sfavorevole per Mosca. La riluttanza a sostenere Kiev con forniture militari è venuta meno tempo fa, e quindi più il tempo passava più si rischiava – agli occhi di Putin – che l’Ucraina diventasse di fatto una parte dell’Occidente, aumentando il temuto accerchiamento del paese da parte della Nato.
Due anni fa durante una conferenza sulla crisi ucraina organizzata a Roma dal Centro Studi Roma3000, Lucio Caracciolo aveva detto che probabilmente Putin sarebbe passato alla storia in Russia non come quello che ha ripreso la Crimea, ma come quello che ha perso Kiev. Ecco, Putin ha deciso che questo non doveva succedere: ha cominciato a fare discorsi pubblici affermando la centralità dell’Ucraina nella storia russa, e negando la sua effettiva indipendenza.



Per l’Occidente né il discorso storico né l’affermazione di una sfera d’influenza hanno alcuna validità: è l’autodeterminazione dei popoli che deve essere in primo piano. Se gli ucraini vogliono far parte dell’Occidente allora hanno tutto il diritto di aspirare a questo traguardo. Certamente fa rabbrividire l’idea che Mosca voglia controllare un paese contro la volontà dei suoi cittadini, facendo tornare la mente agli anni dell’Unione Sovietica (e anche di altri colonialismi). E’ una cosa annettere la Crimea e sostenere le repubbliche separatiste dove la popolazione è favorevole a Mosca, ma ben diverso se la presenza russa deve essere imposta con la forza contro un popolo che preferisce essere indipendente o anche parte delle istituzioni occidentali.
Da questo punto di vista l’invasione del paese oltre il Donbass non è giustificabile se non in una logica puramente di potere: la Russia si sente accerchiata quindi vuole avere una zona cuscinetto intorno a sé, per evitare il rischio di essere schiacciata dalla Nato. E’ una visione che contrasta con quanto affermano le democrazie occidentali, ma che comunque non può essere ignorata; d’altronde abbiamo rischiato la guerra nucleare nel 1962 quando Cuba ha chiesto all’Unione Sovietica di installare missili sul suo territorio. La sicurezza strategica spesso prevale sui principi politici generali.


Poi c’è il precedente del Kosovo. Almeno per quanto riguarda le repubbliche separatiste, Mosca può ben affermare che sta facendo un’operazione simile a quella della Nato nel 1999: difendere una minoranza etnica contro i soprusi dello stato centrale, riconoscere la sua indipendenza e poi attaccare il nemico per neutralizzare la sua possibilità di intervenire. Per non parlare delle guerre da cambiamento di regime degli ultimi vent’anni, spesso condotte al di fuori del diritto internazionale. Certo, noi siamo i buoni e combattiamo per la democrazia, ma questa narrazione ha poco valore agli occhi dei nostri avversari, che anzi la vedono come un pretesto per giustificare operazioni mirate semplicemente a promuovere i nostri interessi strategici.


La soluzione a questo dilemma – quello di aver meno credibilità quando si critica le azioni russe a causa dei nostri errori nel passato recente – trova una soluzione almeno parziale solo se siamo disposti a riconoscere dove abbiamo sbagliato noi. Cioè, ci vuole un po’ di coerenza: se vogliamo criticare il copione russo di intervenire militarmente a difesa dei propri interessi in altri paesi, non dobbiamo giustificare operazioni simili da parte occidentale. Lo stesso vale per Putin, però: le sue critiche ora perdono di efficacia, perché due torti non fanno una ragione. In alternativa, ci dobbiamo sedere ad un tavolo e trovare un equilibrio degli interessi, operazione che richiama i metodi dei secoli passati, ma che evidentemente fa parte ancora di una visione realistica del mondo.



In conclusione, il punto è che la situazione in Ucraina oggi è il risultato di un processo lungo decenni, e dell’illusione dell’Occidente di poter esigere il rispetto dei principi democratici che affermiamo essere primari, anche senza prendere in considerazione le paure strategiche di Mosca e gli errori che noi stessi abbiamo commesso. L’invasione russa dell’Ucraina è senz’altro da condannare, ma non possiamo essere così ingenui da non capire come siamo arrivati a questo punto. E guardando al futuro, se vogliamo tornare al dialogo – senza supporre che in effetti questo sia l’obiettivo di tutti, visto che c’è già chi scalda i motori per una nuova versione della guerra fredda – allora occorre onestà e franchezza nei rapporti internazionali, perlomeno nelle discussioni dietro le quinte. Altrimenti è più che prevedibile che il gioco si ridurrà soltanto ad una questione di potere, in cui forse noi buoni potremo anche vincere, ma con costi e rischi altissimi.

 

-Di Andrew Spannaus

 

 

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